Pubblichiamo un intervento pubblico sulla Giustizia della Ministra Marta Cartabia (Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2021), con la segnalazione che abbiamo ricevuto da Filiberto Palumbo, uno degli 88 Membri del Comitato Scientifico e Coordinatore del 7^ Gruppo di Lavoro: Giustizia- Istituzioni
“Una pagina da leggere per intendere il vero significato di Giustizia.
Nulla di più eloquente anche sul piano della Politica del Diritto.
Un plauso a Marta Cartabia”
Contiamo di pubblicare il risultato del work in progress del Gruppo di Lavoro sulla Giustizia, non appena lo riceveremo da Filiberto Palumbo che è stato un Membro del Consiglio Superiore della Magistratura^
**** Per una giustizia che sia volta a riparare ****
(di Marta Cartabia) Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2021
“Questo consesso io istituisco, intatto da lucro, venerando, severo. Dopo aver scelto i migliori dei miei cittadini”. È l’energia di reiterazione dei testi classici a portarmi ancora una volta qui, all’acme delle Eumenidi di Eschilo. E qui ritrovo quel sostrato immutabile delle umane società, di cui parla Nicole Loraux.
Più volte mi sono confrontata con l’Orestea, a cominciare da una prolusione per l’Università Roma-Tre. E ora, che da ministra della giustizia mi accingo ad assistere alla messa in scena al teatro di Siracusa delle Eumenidi, pur nella distanza del tragico, tre temi, più di tutti, ritrovo del nostro tempo: la rilevanza pubblica della violenza domestica; l’effetto distruttivo di ogni spirito vendicativo; il cambio di paradigma nella giustizia, dovuto al prevalere della ragione, del logos. A conclusione della catena di violenze che ha travolto la famiglia degli Atridi e la stessa città di Argo, Atena segna un passaggio di civiltà interrompendo la catena sanguinosa e distruttiva delle vendette, con l’istituzione dell’Aeropago, il primo tribunale, “consesso venerando, severo”, composto dai “migliori dei miei cittadini”.
Oreste, l’imputato, è reo confesso. Ha ucciso la madre Clitemnestra. Ma il caso è più complesso di quanto appaia a prima vista e la dea della sapienza, nata dalla testa di Zeus, non arroga a sé la facoltà di giudicare Oreste, ma nomina un collegio di dodici cittadini e lo presiede. Al termine del processo sarà il voto di Atena a determinare l’assoluzione dell’imputato, non come atto di grazia, ma come intervento necessario a stabilire un nuovo ordine.
È l’affermazione del logos che prevale sull’istinto vendicativo. Una svolta che Eschilo mette in scena, contrapponendo i mugugni delle Erinni – esseri informi e abominevoli – al processo argomentato e dialogico celebrato davanti ai migliori cittadini che compongono il Tribunale, presieduto dalla dea della ragione. Una svolta maturata con il travaglio di un’evoluzione, non calata dall’alto con un deus ex machina. Un esodo Handlungsschluss, secondo la classificazione dello studioso Gerd Kremer, che la contrappone a Ecceschluss.
Un esodo che alla fine celebra il trionfo di Zeus agoraios, “patrono della parola”. Mentre compone i suoi versi, Eschilo non si schiera sulle riforme del suo tempo, portate avanti da Efialte nel 462: la sua preoccupazione è solo scongiurare la stasis, la divisione della città, la guerra civile “che mai di mali è sazia” e che reca sempre un esito tragico. In ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una dimensione pubblica: non è mai una questione meramente privata, nemmeno quando riguarda il più stretto ambito domestico e familiare.
Un reato non è mai solo una storia privata, di vittima e carnefice, riguarda sempre l’intera comunità, che a conclusione della trilogia riceverà “un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”. Nasce così il processo davanti a un tribunale e l’affermazione della parola, dell’uso della ragione e del dia-logos diventa la più importante “delle mutazioni del diritto che mette in scena l’Orestea”, secondo Frangois Ost.
Se la giustizia delle Erinni è muta e sorda, incapace a dirsi, prigioniera del risentimento e dell’istinto vendicativo, intessuta di giuramenti e maledizioni, la nuova giustizia di Atena è basata sull’argomentare, sul ragionare, sul parlare.
E non è difficile ritrovare l’eredità di quell’iniziale istituzione umana nei riti del nostro processo. Prima all’accusa il compito di “spiegare con esattezza il fatto”, poi un incalzare di domande, quindi entra in scena il difensore, Apollo.
Una difesa che non negai fatti, ma invita a comprenderne le ragioni (vv. 614 – 621). In questo primo, mitologico, dibattimento ci sono già i fondamenti del giusto processo. E c’è un collegio che innanzitutto è nella posizione di ascolto, prima tra le virtù richieste a ogni giudice di ogni tempo. Occorre sempre, direbbe Paul Ricoeur, “una parola di giustizia”. Una parola che si esprime nel processo. Giustizia e parola non possono procedere disgiunte: il giudice è chiamato a rendere ragione delle decisioni con la motivazione.
La sentenza non conclude però nelle Eumenidi il compito di Atena. Le Erinni reagiscono con rabbia all’assoluzione di Oreste, minacciano distruzione: lo spirito vendicativo non è sazio, non accetta un atto di ragione che veda e proceda oltre la cieca reattività. A lungo la dea della Sapienza dialoga con le Erinni, per cercare di placarne il risentimento.
Ed è qui che si esplicita l’ulteriore trasformazione della giustizia. Come la giustizia vendicativa delle Erinni alimenta lo spettro di un dissidio irrimediabile distruttivo dell’interapolis, così la potenza della persuasione di Atena trasforma il loro inamovibile lamento in forza benefattrice per la comunità. Nelle Eumenidi, la trasformazione dell’antica giustizia si realizza in un superamento – Aufhebung – che conserva, senza liquidare.
Tanto che Atena riserva alle antiche Erinni un posto in città. “Anche le operazioni più civilizzate della giustizia, in particolare nella sfera penale – scrive Ricoeur – mantengono ancora il segno visibile di quella violenza originale che è la vendetta”. Anche nelle civiltà contemporanee la giustizia è inevitabilmente espressione di forza, sia pur necessaria per fini costituzionalmente rilevanti: l’ordine, la sicurezza, la convivenza sociale, la prevenzione del crimine, la sanzione per chi si è reso colpevole. E per realizzarsi, la legge “prende qualcosa in prestito – osserva Ost – dalla violenza che intende combattere”.
Ma la nuova giustizia delle Eumenidi non è più l’occhio per occhio, dente per dente. Somiglia piuttosto alla “vendetta gentile” di cui scrive Albie Sachs nel Sudafrica degli anni Novanta. Sachs, avvocato delle vittime dell’apartheid e futuro giudice della Corte costituzionale sudafricana, si trova in una stanza d’ospedale, colpito da un attentato in cui ha appena perso un braccio e un occhio, quando un amico gli si avvicina per sussurrargli: “Non preoccuparti, Albie, ti vendicheremo”.
È lì che il giudice Sachs matura la sua idea di giustizia: “Mi vendicherete? Pensai. Andremo in giro a mozzare braccia alla gente? Ad accecare un occhio a chi mi ha accecato? È questo ciò per cui combattiamo? Un Sudafrica pieno di gente senza braccia e senza occhi? Se avremo libertà, democrazia, lo Stato di diritto: ecco allora – ammonì in una memorabile pagina – io sarò vendicato”.
È lo stesso impeto che indusse Liliana Segre, mentre detenuta nel campo Malchow, a non raccogliere la pistola del suo carceriere nazista in fuga dall’Armata Rossa “Da quel momento – racconta la senatrice a vita – sono diventata quella donna libera e di pace che sono anche adesso”. “Prevalse Zeus – conclude Eschilo – che protegge chi parla”.
^ A cura della Comunicazione del Comitato Scientifico della Fondazione Democrazia Cristiana